Letterato italiano. Di
nobile famiglia vicentina, nel 1511 subì l'esilio e la confisca dei beni
a causa dell'appoggio dato all'imperatore Massimiliano contro la Repubblica di
Venezia. Stabilitosi a Milano, studiò greco sotto la guida dell'umanista
Demetrio Calcondila, maestro anche del Poliziano. Trasferitosi a Ferrara e poi a
Firenze, fu qui ammesso alle riunioni degli umanisti che si tenevano nei
giardini del palazzo Rucellai (gli “orti oricellari”) dove conobbe,
tra gli altri, N. Machiavelli e P. Bembo. Recatosi a Roma, fu accolto con grande
favore da Leone X, che lo nominò suo ambasciatore in Germania e
intervenne presso la Repubblica Veneta finché a
T. fu concessa
l'amnistia e la restituzione dei beni. Ambasciatore di Clemente VII presso la
Repubblica di Venezia, nel 1530 accompagnò il papa a Bologna per
incoronare Carlo V imperatore e re d'Italia; in quell'occasione l'imperatore lo
creò conte palatino. Più tardi, e per molti anni,
T. visse
nella sua villa di Cornedo (Vicenza) dove si dedicò agli studi; tuttavia
soggiornò a lungo anche a Milano, a Padova e a Roma. Fautore di un
classicismo integrale e dell'aderenza stretta ai canoni aristotelici, nella sua
ponderosa
Poetica (1529-62)
T. si sforzò di dare
sistemazione a tutti i generi letterari, con rigide prescrizioni di stile,
metri, struttura. Egli ebbe inoltre una parte importante nel vivace dibattito
rinascimentale sulla formazione della lingua nazionale, sostenendo la
necessità di creare una lingua unitaria per tutti gli scrittori (una
lingua “cortigiana” o, come egli la chiamava, una “loquela
italiana”) derivata non solo dal toscano o dal fiorentino, ma da tutti i
dialetti italiani. La proposta trovò subito l'opposizione di molti
letterati, soprattutto toscani e romani; particolarmente aspre furono le
polemiche con Bembo, sostenitore di una lingua italiana basata esclusivamente
sul fiorentino.
T. espose la sua proposta nel dialogo
Il
Castellano (1529) in cui, tra l'altro, chiamava a sostegno delle sue tesi
l'autorità del Dante autore del
De vulgari eloquentia,
opera di cui nello stesso anno egli aveva pubblicato la traduzione.
Contestazioni non meno accese provocò la sua proposta (illustrata
nell'
Epistola delle lettere nuovamente aggiunte nella lingua italiana del
1524, indirizzata a papa Clemente VII) di riformare l'alfabeto italiano
introducendo alcune lettere greche (
ε,
ω) e altre
lettere (
ç,
k,
j,
v) in modo da rappresentare
adeguatamente tutti i fonemi. Nonostante le critiche, nel tempo fu almeno
accolta la distinzione, proposta da
T., tra
u e
v. Egli
applicò parzialmente le proprie teorie ortografiche nella stampa della
Sofonisba (composta nel 1515, stampata nel 1524 e rappresentata nel
1556), la prima tragedia “regolare” del Rinascimento, cioè
composta nel rigido ossequio alle regole aristoteliche, su soggetto tratto da
Tito Livio. Perseguendo l'intento di ricreare le forme letterarie classiche e di
dare all'Italia una vera e propria epopea nazionale di stampo omerico, compose
anche
L'Italia liberata da' Gothi (1527-47), poema in 27 libri sulla
guerra tra Goti e Bizantini.
T. scrisse ancora la commedia
I
Simillimi (1548), quasi una traduzione dei
Menaechmi di Plauto, e una
raccolta di
Rime volgari (1529), interessanti solo in quanto terreno di
sperimentazione metrica (Vicenza 1478 - Roma 1550).
Busto di Gian Giorgio Trissino